Chelsea 606

Chelsea Hotel - Photo by Dario Camilotto

CHELSEA 606

Stavo leggendo un articolo dell’ Herald Tribune seduto sul
davanzale di casa: “Il Chelsea Hotel è stato una specie di Torre di Babele
della creatività e delle cattive abitudini che alcuni dei cervelli più sballati
e autodistruttivi del mondo, almeno una volta, hanno chiamato casa”. Gettai
lo sguardo in basso mentre un taxi si fermava davanti all’edificio, erano due
anziani, l’insegna della farmacia Duane Reade segnava le 17:48 e ripresi a
leggere. ‘Il Chelsea è da sempre un rifugio sicuro per poeti, girovaghi,
musicisti, pittori, attori e registi. Alcuni di loro erano già famosi quando
vi hanno soggiornato, altri lo sarebbero di-ventati. L’unica cosa certa è che
Mr. Bard non ha mai cacciato nessuno perché non poteva pagare il conto. Semmai
si faceva lasciare un quadro, un manoscritto o qualsiasi altro oggetto con un
valore artistico. La sua collezione privata, dicono, ha oggi un valore
inestimabile.’

Tra pochi mesi lo storico hotel gestito per cinquant’anni
dalla famiglia Bard sarebbe scivolato in mano ad un nuovo managment di lusso e
tutti sapevamo che molte cose sarebbero cambiate. Mescolai della vodka
all’acqua osservando i due cubetti di ghiaccio rotolarsi come se vi
stesse divampando un incendio. Pensai a Dylan Thomas che viveva quattro piani sotto
al mio e che nella camera 206 una sera di novembre del 1953 si scolò 18 bicchieri
di whisky, torturato chissà da quali pensieri e, varcata la soglia del coma
etilico, lasciò questo posto per sempre. Pensai anche che nessuno aveva mai
detto quale marca di whisky stesse bevendo. Da Sartre a Bukowsky, da Basquiat a
Miller passando per Wharol e Kerouack i Doors, mille storie si sono intrecciate in
questo posto. Lid Viscious verso la fine degli anni settanta uccise la fidanzata
Nancy poi, mentre l’inverno stava per finire, lui pensò di anticiparlo
stroncandosi con un’overdose di eroina e dolore.

Ma cosa ci facevo io in quel posto ormai da un anno!? In
realtà sarei dovuto restare in città il tempo di un’intervista, ma poi il
fascino discreto del fato mi lusingò e decisi di fermarmi. A quel tempo
lavoravo come free lance per un giornale di Londra, la mia città natale, ed ero
l’inviato della rubrica cultura e spettacolo. Ogni settimana spedivo
via email il mio pezzo su questo o quel personaggio oppure su questo o quel
locale di tendenza: 400 sterline a pezzo era il compenso pattuito, ma dopo aver
esternato il desiderio di non rientrare in “Patria” e di fermarmi a tempo
indeterminato negli USA, scesero a 200 sterline a pezzo. Decisamente poco per vivere a New York. Ero solo, ma l’idea di vivere in una grande città mi aveva
illuso di sentirne meno il peso. Evidentemente mi sbagliavo: stavo solo
aspettando l’occasione per svoltare, e sembrava che quel giorno fosse arrivato. 

Il taxi sostava immobile come su di un set fotografico. Dal
sesto piano la 23ma street era un fiume di porpora da un lato e un groviglio
di occhi gialli dall’altro. Qualche taxi era guercio. A ovest l’azzurro del
cielo stava lasciando spazio ad un blu sempre più scuro e denso. Schiacciato tra
la 7ma e 8va Avenue, il mio cervello produceva visioni folli ed ebbi un
sussulto quando l’insegna dell’hotel accanto alla finestra si accese di colpo.
Come l’avevo vista fare al bowling, Alexi chiuse la portiera decisa, puntò l’ingresso centrandolo solo dopo aver tolto una ciocca rossa
dalle labbra sottili. Il portiere suonò il citofono: “Si?” dissi, dopo aver
staccato l’apparecchio dal muro, “Mi scusi c’è la sua amica, la faccio salire” Guardai l’orologio sopra il caminetto, erano le 18:32 e fuori ormai anche le
luci dell’Empire erano accese. “Certo, grazie Steve.” “Bene, buona serata
allora” disse il portiere con fare ironico ma senza perdere l’occasione di
mettersi al servizio, “Non ci serve niente Steve; ma grazie comunque”, lo liquidai
con un secco “ci vediamo” che non prevedeva risposta e riagganciai. Sentivo i
tacchi torturare il parquet sbilenco del corridoio, la porta era aperta e vi
usciva un sottofondo di pianoforte del genio di Gershwin. Varcata la soglia e
quasi senza salutarmi, appoggiò la borsa di tela sul pavimento e aprì il
frigo. Strozzando una piccola Evian potevo sentire il mix di acqua ed aria
scendere dentro di lei. La conoscevo solo da qualche mese e tra noi c’era già
una grande confidenza che col passare delle settimane si era tra-sformata in
complicità. Alexi lavorava al negozio di un vecchio antiquario, scapolo e senza
prole dal quale, anche se non glielo avevo mai sentito dire, sperava di
ereditare parte della fortuna. Cinica e disincantata, a trentanove anni
sentiva il bisogno di una svolta, di prendersi dalla vita quello che non
aveva mai avuto. “Come stai” le chiesi mentre chiudeva il frigo. “Come una
crisalide” rispose, “In che senso scusa” replicai, “Aspetto il giorno in cui
potrò spiccare il volo da questa città di merda”. Il naufragio del secondo
matrimonio e la scoperta di non poter avere figli, l’avevano spenta anche se,
ogni tanto, la sua vera natura si materializzava d’incanto regalando a chi le
stava vicino la sua dolce presenza di squisita loquacità. Tra noi non c’era
nulla di serio. Una sera di ritorno da una festa ci trovammo avvinghiati sul
divano di casa sua. Al mattino mi svegliai solo e con la tv accesa. Ad ogni
modo non tornammo mai sull’argomento e l’alcol in questi casi offriva sempre
l’alibi dell’oblio.

La vera infatuazione che ci accomunava era quella per “Blowing in the wind” che Bob Dylan scrisse di getto su di un pezzo di carta
da giornale e che in seguito regalò al buon Stanley in segno di amicizia e
rispetto reciproco. Eravamo entrambi innamorati di quel pezzo di carta e di
quell’inchiostro blu che riusciva ancora a regalarci emozioni autentiche.

C’era però l’aspetto meno poetico. Alexi era in contatto con
un collezionista disposto a sborsare 500.000 dollari per averne l’originale.
Sapevamo che quella cifra ci avrebbe dato la possibilità di costruirci una
nuova vita lontana da quel posto. Avevo scattato alcune foto alla grossa
cornice che conteneva nel centro esatto quel pezzetto di carta gialla e
sgualcita. Per Alexi non fu difficile riprodurre una copia identica della cornice
e del suo contenuto e quella sera, sul pavimento accanto al frigo, erano
appoggiate le nostre speranze. Mangiammo in fretta, ripassando passo a passo
tutte le operazioni che di li a poco avremmo dovuto eseguire. La tv passava
programmi inutili ma lo scopo non era quello di se-guirli bensì avere qualcosa
che smorzasse la tensione. Devo dire che un White Horse senza ghiaccio riuscì nell’intento. Alle 2:45 uscimmo dalla stanza di soppiatto e in
calzini. Raggiunto il decimo piano ci fermammo a riprendere fiato e studiare la
situazione. Di colpo una porta del lungo corridoio si aprì e un uomo si diresse verso il ballatoio che dall’ascensore portava alla tromba delle
scale. Strinsi Alexi per un fianco e la baciai fino a quando la scia di profumo
di quella figura non si perse nelle mie narici. Era questo quello che devo
aver provato quella sera, pensai. Nella penombra sicuramente non ci aveva visto
in faccia e poco dopo aprimmo le danze. Come prima cosa staccammo, senza
reciderli, i fili della telecamera a circuito chiuso. Tra la stanza 1003 e la
1005 era appeso il nostro destino. Avevo visto decine di volte quel quadro,
sapevo com’era stato appeso e l’esatta distanza dal soffitto, da terra e da entrambe
le porte. Lo staccai per lasciarlo scivolare fino a schiacciarmi le punte dei
piedi mentre in modo meccanico appendevo la copia al suo posto. Rientrammo
nella nostra stanza e restammo in silenzio ad osservarne i dettagli. Era
davvero affascinate l’idea che B. Dylan avesse scritto un pezzo del genere
proprio sopra quello straccio di cellulosa. Cercai di immaginare in quale luogo
lo avesse scritto, su quale superficie si fosse appoggiato, se quel giorno
piovesse oppure se dietro a qualche finestra osservasse semplicemente il vento
piegare le punte degli alberi, coniando dolci e amare metafore. Lo infilammo
lentamente dentro al vecchio caminetto dismesso del soggiorno. Poi cercammo di
dormire lasciandoci cadere io sul divano, lei sul mio letto. Francamente non ci
riuscii. Continuavo a pensare a quello che stavamo facendo. Ci saremo visti la
sera stessa per ripassare nei minimi dettagli i tempi e il luogo dell’incontro
per la consegna della refurtiva, le modalità del ritiro del contante e la fuga
verso ovest dove ricominciare. Avevo detto ad Alexi di avere una colazione di
lavoro importante, ma la verità è che volevo starmene solo, a riflettere e
pensare. In fondo eravamo ancora in tempo per ritornare sui passi delle nostre intenzioni.

Quella mattina lei mi salutò poco prima che mi alzassi
facendomi trovare la colazione pronta e un post-it rosa con la scritta “A
stasera, stai tranquillo andrà tutto bene, vedrai”. Non mi fidavo di lei fino
in fondo e non potevo biasimarmi. Divorai un plum cake in piedi, accennai
ad un improbabile giro di valzer come per esorcizzare la paura che mi colava
dalle mani e poco dopo inforcai la porta di casa. Tra il blocco della serratura
e l’intercapedine infiali un pezzo di plastica trasparente che avevo recuperato
dal col-letto di una mia vecchia camicia. La porta si accostò ma senza
chiudersi con il classico ‘clack’, esattamente come avevo previsto. Così scesi
le scale attento a farne, come al solito, due alla volta sia in discesa che in
salita. Dopo aver consegnato le chiavi a Steve, che, ammiccava alludendo alla
sera prima e alla mia amica, finsi di aver sentito una persona chiamarmi dalla
tromba delle scale. Presi a salire distratto borbottando a voce alta uno
svogliato “Arrivo, sto arrivando”. La lobby era un’arena di persone. Molti
clienti stavano lasciando l’albergo per lasciare posto a nuovi avventori e fu
facile sgusciare senza dare troppo nell’occhio. Salii le scale fino al sesto
piano e spinta leggermente la porta, questa si aprì in un attimo facendo
scivolare la sottile lingua di plastica trasparente che avevo sistemato in
precedenza. Per un attimo ebbi la sensazione di essere un ladro in casa mia,
poi mi chiusi in bagno e seduto sul water aspettai.

Alexi nel frattempo non aveva resistito allo shopping e in
un negozio nei dintorni di Union Square era riuscita a comperarsi un paio di
scarpe nuove ed un rossetto. Da Barnes & Noble si fermò davanti alla sezione
viaggi e per un po’ la sua mente staccò il biglietto per una delle tante mete
in vetrina. Ad un tratto le sembrò di aver visto una sua amica del liceo con la
quale da tempo aveva tagliato i ponti. Si sentiva già una fuggitiva e cercò di
evitarla dribblando l’esile corpo tra gli scaffali. Per fortuna puntò il
reparto dedicato ai bambini e dopo aver posato la guida sul Messico che le era
rimasta tra le mani, sgusciò fuori sotto una pioggia di raggi di sole. “Che
stesse comprando qualcosa per suo figlio, o forse pure lei” pensò. Poco
importava, erano quasi le nove e sicuramente Doug (così mi chiamavano le
per-sone più vicine anche se il mio vero nome è Douglas, ovviamente) sarà già
uscito, pensò. Ad un isolato dall’entrata prese a correre, così tra un sospiro
e l’altro le fu più facile giustificare al nuovo portiere di turno che il suo
ragazzo la stava aspettando in macchina e che sarebbe salita solo un attimo a
prendere una cosa in camera. Il portiere, vista tanta sicurezza e distratto dal
profondo decoltè in vetrina, non mise in dubbio le scuse che Alexi inventò e le fece scivolare la
chiave della camera nella mano, poi tornò a malincuore ad accogliere le
lamentele di un grassone. Aprì la porta facendo girare la chiave lentamente.
Ero solito chiudere a tre mandate, ma lei non poteva saperlo. Cercò di aprire
subito la porta del bagno ma la trovò chiusa. Nello stesso istante deglutii in un
misto di gioia per avere avuto conferma dei miei dubbi e di rabbia per essermi
fidato troppo anche questa volta. Alexi prese a camminare lungo il breve
corridoio lasciandosi sulla destra il piccolo angolo cottura. Nel soggiorno, il
tavolo in disordine con gli avanzi della colazione la rassicurarono un po’. Si
diresse verso il caminetto e quando ebbe la cornice tra le mani, sentì una voce
tagliarle la schiena. “Perché lo stai facendo” esordii con voce tremante. “E
tu cosa ci fai qui” rispose Alexi appoggiando la sacca a terra. “Pensavo ci
fosse un accordo tra noi, era già difficile fare una cosa simile per me, ma ora
tutto si complica, Alexi” le dissi. “Senti lascia perdere le paternali, non è come
sembra” rispose lei stizzita e viola di rabbia in faccia. “Cosa vuol dire non è
come sembra, mi pare evidente che volevi abbindolarmi, o mi sbaglio?!”.”Non fare l’idiota, tra noi due c’era un accordo è vero, ma ho deciso di
troncarlo, oggi, adesso!!!”. La situazione stava prendendo una brutta piega,
la tensione era palpabile e quando cercai di avvicinarmi alla cornice, lei mi
allontanò con una forte spinta. Appoggiato alla finestra, vedevo la mia ombra
incombere sinistra sul tappeto sgualcito del soggiorno. “Non ti azzardare ad
avvicinarti” mi disse con fare minaccioso, “Senza di me non andresti da nessuna
parte con questo stupido pezzo di carta. Tu, Douglas, hai bisogno di me,
mentre io avevo bisogno di te solo fino a stanotte, questa è la differenza”. Alexi era una corda di violino, ma non avevo intenzione di lasciarla fare.
Cercai di avvicinarmi calpestando la mia ombra. “Fermo, pezzo di merda! Non
provarci nemmeno ad avvicinarti” mi disse balzando come un gatto ad un metro da
me. “Non aggravare la situazione, in fondo ti sei infilata in casa mia e
questo si chiama violazione di domicilio anche a New York, credo” le dissi
cercando di stare calmo. Ricordo che la scena durò il tempo di un soffio, Alexi
perse definitivamente il controllo, si aggrappò al piccolo busto di bronzo che
poggiava sulla credenza e con un gesto atletico cercò colpirmi
scaraventandomelo contro. La traiettoria però continuò e finì sulla finestra da
dove la sera prima l’avevo vista arrivare. Il busto perforò il vetro sottile
finendo la corsa contro il carrello di un venditore di hot dog e schivando di
poco un passante. Ci fissammo per qualche istante, poi, come se la
colluttazione non ci fosse mai stata, raggiungemmo la finestra scostando la
tenda per osservare la scena. Un capannello di persone si era ormai formato
intorno al venditore che urlando puntava il dito verso la nostra direzione. Il
tempo di guardarsi e la decisione di scappare verso quel mare di rimorsi che
avremo dovuto affrontare. Se non fossimo scappati, avrebbero scoperto non solo
che eravamo stati noi a combinare quel casino, ma anche che avevamo rubato la
preziosa reliquia. Non avevamo tempo, bisognava decidere subito. Presi sotto al
braccio la borsa di tela con il malloppo guardando Alexi dritto negli occhi.
Dopo pochi secondi stavamo volando per le scale; prima di arrivare alla lobby
rallentammo, cercando di assumere, una volta giunti alla reception, uno sguardo
intriso di stupore e curiosità chiedendo a tutti cosa stesse succedendo. C’era
una confusione colossale, ma la polizia non era ancora arrivata, così con la
scusa di andare a vedere da vicino cosa fosse successo, scivolammo lentamente
verso la 7ma avenue. Al cenno di un braccio, un taxi svoltò bruscamente verso
di noi fino a fermarsi. Ci infilammo dentro ad una velocità folle, nessuno dei
due parlava. “Houston & Second Ave” dissi al tassista in modo concitato. Per il
momento la cosa importante era allontanarsi da quel posto, poi avremo pensato
al resto. Alexi era seduta dietro al tassista, lo sguardo fisso oltre a ogni
cosa, dallo specchietto potevo vedere la mia immagine e sentii un conato di
vomito spingere verso l’esofago. Ancora prima che le ruote si fermassero la sua
portiera era già aperta, la vidi scendere mentre una soffice folata di vento le
scompigliava i capelli come per accarezzarli, lo schianto fu tremendo. In un
attimo il boato di un camion che stava sopraggiungendo la travolse
scaraventandola a metri di distanza, mentre le scarpe rimasero lì inchiodate sull’asfalto nero. Un forte vento prese a spazzare le vie
annunciando l’imminente arrivo dell’ autunno. Lei era a terra priva di vita,
la gente urlava, il clacson del taxi nell’urto si era incastrato e quel grido
metallico rendeva la scena surreale. Dal cartoccio di lamiere mi sembrò di
veder un pezzo di carta spiccare il volo. Erano parole della canzone di Dylan
che come polvere ormai volteggiavano nell’aria “How many times must a man look
up before he can see the sky”
. In un solo istante realizzai di aver perso la
mia partita col destino.

Ogni giorno ci alziamo e facciamo progetti, organizziamo
incontri, cene, partite, viaggi e mai pensiamo al fatto che tutto può cambiare
in un solo istante, nel bene e nel male. Non importa da quale parte stai,
quello che accomuna tutti è la speranza. Equilibristi aggrappati a dei fili
invisibili, siamo piccoli fogli di carta a spasso per l’universo, fragili
strumenti funzionali ad un disegno.

“Hey Doug si rientra, muoviti!” Chiusi il taccuino
guardando prima l’uomo in divisa, poi quel rettangolo di cielo grigio. Erano
giorni che parlavo solo al mio quaderno, lo strinsi tra le mani alzandomi
lentamente. Tra due anni e quattro mesi sarei uscito per sempre dal quel
posto e avrei potuto ricominciare, o almeno così speravo.



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