I pugni in tasca

<Acqua frizzante con lime e ghiaccio> le dissi. La
ragazza appoggiò il vassoio sul tavolino

scrisse qualcosa sul piccolo block notes, quindi,
infilandosi la penna fra i capelli, centrò

l’ingresso del bacaro alle mie spalle. Dietro a occhiali
scuri nascondevo occhi lucidi e neri

come bottoni, cercai di non pensare, ma appena li chiusi
una lama cominciò a tagliarmi in

due una guancia. Con il dorso della mano mi affrettai ad
arginare quella calda e amara

scia sperando che nessuno mi vedesse, quindi mi soffiai
il naso e sospirai come un

vecchio tormentato dai ricordi.

In quel periodo ero in bilico, tra pochi mesi tutto non
sarebbe stato più come prima e forse

già il presente non mi apparteneva. Quando la ragazza
tornò, mi accorsi che stavo

leggendo sempre la stessa riga da almeno tre canzoni.
Spensi la musica che avevo infilato

nelle orecchie da ore e strinsi il bicchiere tra le mani
cercando un po’ di refrigerio e dopo

una lunga sorsata con il polsino arrotolato della camicia
mi asciugai la fronte. L’isola della

Giudecca, che vedevo dal mio tavolino dalle Fondamenta
delle Zattere, era immobile e

assonnata come sempre. Sulla mia destra potevo scorgere
l’inconfondibile mole del

vecchio Molino Stucky, gioiello di architettura neogotica
che da quasi duecento anni si

affaccia sul Canale della Giudecca. Per un attimo pensai
a quel Giovanni Stucky che agli

inizi dell’ottocento, con la complicità dell’architetto
Ernest Wullekopf, fece edificare la

storica struttura sfamando per anni centinaia di persone
e di come un giorno del 1910 quel

suo sogno finì sotto i colpi a morte di un suo
dipendente. Chissà cosa direbbe oggi,

pensai, vedendo la sua nobile creazione trasformata in
una catena alberghiera della

famiglia Hilton. Rubai l’ora ad un turista che mi sedeva
accanto e frantumai a morsi un

pezzetto di ghiaccio. Quel pomeriggio di metà luglio
avrei voluto non finisse mai. Le case

dell’isola che davano sul canale erano ancora in ombra ma
di lì a poco il calore del sole

avrebbe infuocato anche quelle fresche finestre
spalancate a nord. Vedevo alcuni uomini

intenti a spiegare le tovaglie a quadri sui tavoli di
legno delle trattorie. Avevo visto quei

gesti ripetersi molte volte e da così lontano, anche se
non potevo scorgerne i dettagli,

assaporavo comunque la melanconica atmosfera di quel
rito. Abbassai gli occhiali fin

quasi sulla punta del naso, facendo diventare gli occhi
due minuscole fessure. Posai lo

sguardo verso est dove si poteva indovinare lo stabile
dell’Ostello di Venezia e ammirare

la bianchissima facciata della Chiesa del Redentore che, eretta
dal Palladio per volontà del Senato veneziano, intendeva invocare l’aiuto del
Divino dopo che dall’estate del 1575 la

peste aveva provocato in due anni la morte di quasi un
veneziano su tre.

Annusai dei gerani rossi che incorniciavano il territorio
dell’osteria e rimasi deluso nel

constatare che non profumavano. In quel periodo rientravo
nella categoria delle persone

socialmente inutili, non avevo un lavoro fisso, non versavo
contributi all’erario, in

compenso avrei potuto riempire bottiglie di lacrime. Ero
a Venezia da un mese per un

lavoro procuratomi da un’amica. Con un gruppo di giovani
laureandi, passavo giornate

intere tra le mura dell’Arsenale di Venezia. Mentre in
quelle giornate d’estate tutto

sembrava immobile, il mio martello scandiva il passare
delle ore attaccando migliaia di

foto, stampe, Polaroid secondo criteri stabiliti dal
curatore della mostra. Era un lavoro

semplice e giustamente mal pagato ma non era quello il
motivo che mi aveva spinto lì. La

sera seguente ci sarebbe stata l’inaugurazione del primo
workshop di un certo Araki

Nabuyoshi a Venezia, famoso quanto eccentrico fotografo
giapponese, e tutti a parte me

erano molto eccitati.

Mentre aspettavo Daniel, sempre in ritardo dal giorno che
lo avevo conosciuto, accesi

un’altra Benson & Hedges e ripresi a scrivere
appunti. Ad un tratto dal tavolino a fianco al

mio si alzò la voce timida di una donna intenta a
sventolarsi il viso con la carta dei vini:

<Senta, mi scusi, sarebbe così gentile da
spegnerla?> Mi girai di scatto strappando dalle

labbra la sigaretta per schiacciare nel posacenere almeno
dieci boccate di fumo sotto al

filtro ancora vergine. Ancora prima che il tabacco vivo
cedesse alla pressione delle mie

dita sul quel pezzo di vetro sponsorizzato le dissi un
po’ impacciato: <Mi scusi, nessun

problema>. Mentre cercavo di riprendermi
dall’imbarazzo notai che teneva una mano

appoggiata al ventre leggermente rigonfio sotto al
vestito a fiori. Era in compagnia di un

uomo sulla quarantina e in quel momento mi accorsi che da
quando si erano seduti

accanto a me non avevano aperto bocca.

Lei era di una bellezza disarmante: capelli lunghi e
mossi non solo dal vento, cadevano

morbidi su spalle nude e candide, credo avesse più o meno
la mia stessa età cioè quel

periodo della vita in cui non sai se definirti adulto o
meno, ma sei ancora in tempo per

cambiare le cose.

Daniel sbucò dall’angolo vicino all’osteria lasciandosi
alle spalle lo storico squero che

come sempre oltre a ripararle, sfornava ancora una
gondola nuova di zecca ogni dodici

mesi. <Allora, come andiamo?> <Scusa il
ritardo> aggiunse <c’è stato un problema con il

mixer > Aveva il respiro affannato e la fronte
imperlata di sudore, dal collo della t-shirt

pendevano due auricolari bianchi e sfoderava il sorriso
delle grandi occasioni. <Non

preoccuparti> risposi <Stavo per farti uno
squillo> <Pronto per la serata di domani?> mi

chiese mentre si sfilava lo zaino. Quel sabato, come
dicevo, ci sarebbe stato il gala’ per

l’inaugurazione della “personale” di quel fotografo e ad
essere sincero non avevo nessuna

voglia di andarci, ma dissi: <Certo! Forse distrarmi
un po’ mi farà bene> continuai <In

questi giorni non riesco a pensare ad altro e forse un
po’ di sana mondanità è quello che ci

vuole> Pescai un pezzo di lime dal fondo del bicchiere
e portandolo alla bocca il labbro

inferiore mi bruciò lievemente. Cercai d’istinto lo
sguardo della donna e non trovandolo

cominciai a fissare il posacenere. Quindi Daniel aggiunse:
<Non è una decisione facile, ne

abbiamo già parlato molte volte ma solo tu puoi
scegliere, o resti o te ne vai> Sfilò una

sigaretta dalla tasca dei jeans e mentre stava per
accenderla, attirai la sua attenzione

togliendomi gli occhiali assicurandomi che la coppia non
ci stesse guardando. Senza dire

una parola alzai le arcate sopraccigliari indicando
contemporaneamente l’uomo e la donna

seduti lì vicino, facendo oscillare velocemente la testa.
<Poi ti spiego> dissi anticipandolo

prima che aprisse bocca. Daniel la fece roteare fra le
dita, poi come se avesse appena

sparato con una rivoltella, la fece scivolare nuovamente
nella tasca dei jeans. <Lo so non

è facile e così non può continuare. Sono anni che aspetto
l’occasione per andarmene da

qui e adesso che quel momento sembra arrivato non so
decidermi> Lui mi guardava in

silenzio, aveva sentito quella storia decine di volte
durante il mese in cui lavoravamo

insieme e in realtà il suo silenzio decretava ancora una
volta che quella era una partita che

dovevo giocare solo con me stesso.

Mentre Daniel ordinava il suo chinotto, la coppia si
alzò. Tradito da un giro di vento

improvviso, il volto della donna scomparve dietro la
folta chioma. Si girò verso di me e con

un piccolo gesto della mano si ricompose i capelli. Prese
con cura il libro riverso sul tavolo

e mentre stava per infilarlo nella borsetta, un foglietto
sgusciò tra le pagine scivolando su

chissà quali parole e iniziò il suo volo. Come impazzito,
prese a infilarsi sotto ad un paio di

grosse gambe di una signora anziana e di almeno tre
tavoli, rischiando di cadere in acqua

prima di finire sotto le zampe di un Labrador. La durata
di quel volo fu il tempo che

impiegai a capire che quel foglietto altri non era
che uno degli inviti per l’inaugurazione

del giorno seguente.

L’uomo era già ad un paio di metri da lei e non si
accorse di nulla fino a quando la donna

non si chinò per raccogliere l’invito. Si girò verso di
me e con un timido gesto della mano

sembrò salutarmi, stavo per alzare la mia quando Giacomo
(o meglio “scarface” come tutti

in realtà lo chiamavamo) mi piantò una manata sulle
spalle sorprendendomi da dietro.

<Ciao Giacomo che ci fai qua, pensavo fossi ancora
all’Arsenale> dissi. Era un

personaggio eccentrico, sulla cinquantina, leggermente
brizzolato e nonostante la pelle

crivellata da un acne giovanile era un tipo affascinante,
ma soprattutto era il curatore della

mostra e quindi il nostro capo. <Che schianto! L’avete
vista è una delle più belle donne

che conosca> Mi rimisi gli occhiali cercando di velare
il mio interesse e gli chiesi: <Vuoi

dirmi che la conosci e chi è?> <Beh ehh…> disse
assaggiando una stanghetta degli

occhiali da sole <In realtà non è che la conosca bene,
è la compagna di un mio amico del

liceo e ci salutiamo, tutto qua> Non era me che
salutava prima! Schiusi le labbra

trasformandole in un sorriso impercettibile. Non volevo
sapere nient’altro, avevo tutto ciò

che mi bastava per sperare che domani arrivasse il più in
fretta possibile. Se aveva l’invito

sarebbe venuta all’inaugurazione, non era sposata, tanto meno
con quello che pensavo

fosse suo marito ed era bella, troppo bella per non
essere rivista.

Quella sera cenammo in casa. Daniel viveva in affitto in
una piccola mansarda e ogni sera

per andare a dormire dovevo aspettare che i suoi amici se
ne andassero prima di

trasformare un divano fatiscente in un divano-letto
fatiscente. A dire il vero (anche se non

gliel’ho mai detto) più che una mansarda, era una
soffitta. Per arrivare alla porta

d’ingresso ci si doveva arrampicare su vecchie e ripide
scale di legno sapendo che una

volta varcato l’ingresso, l’umidità ci avrebbe seguiti
anche in casa. Dal bagno, tra la

fessura che si apriva fra il muro e la grondaia si
riusciva ad intuire parte dell’insegna

luminosa dell’Olandese Volante in Campo San Leo. Ci
scolammo una bottiglia di vino

rosso sgretolando bibanesi finti e del pollo avanzato la
sera prima. Dalle casse sopra la

libreria usciva la voce di un giovane Capossela e sulle
note de “l’una e trentacinque circa”

decisi di lavarmi i denti. La sveglia che pendeva da una
delle travi vicino al boiler segnava

l’inizio di un nuovo giorno e con lo spazzolino ancora in
bocca, aprendo leggermente la

porta con un piede dissi: <Che ne dici se scendiamo a
farci una birra?> Potevo vedere

Daniel in cucina riflesso sulla finestra del corridoio
tormentarsi le unghie, fermarsi un

attimo e dire: <Direi che è un’ottima idea>.

Al Caffè Duchamp, in Campo S. Margherita, c’era il solito
groviglio di gente seduta in

cerchio attorno a decine di piccoli tavoli rotondi tanto
che visti dall’alto potevano sembrare

fiori sbilenchi. Al Caffè Rosso, dove qualcuno stava
suonando il piano accanto alla toilette,

c’erano gli amici Daniel. Mentre cercava una sedia per
unirsi a loro, mi avvicinai al

bancone e ordinai una caraffa di birra, pagai e mentre
cercavo di farmi largo tra la gente

accalcata all’uscita ne rovesciai un po’ sulla schiena di
un tipo. Il soggetto prese ad

imprecare senza sosta mentre continuavo a scusarmi
evitando di puntualizzare che se

non si fosse piazzato davanti alla porta magari non
sarebbe successo. Lo ignorai e

sfilando imbarazzato fra gli sguardi dei suoi amici
sgusciai fuori. Il gruppo di amici di

Daniel non mi piaceva, andavano contro ogni criterio di
socializzazione e per quanto

cercassi di rendermi simpatico ed interessante non
riuscivo a scambiare più di un paio di

battute senza riuscire a mettere in fila un vero
discorso. Nel Campo quella sera c’era

un’atmosfera bellissima. Le chiome degli alberi erano
appena mosse da un brezza che

sembrava pettinarli. Contai almeno venti mazzi di rose
rosse muoversi tra la gente dietro

ai denti bianchissimi di chi per vivere era costretto a
vendere gesti d’affetto. Ordinai una

granita all’anice e chiesi al cameriere di metterci anche
del Pernod.

Daniel sembrava ipnotizzato dalla ragazza che aveva di
fronte, mi assicurai di avere la

copia delle chiavi della soffitta in tasca e mi
allontanai. Gli inviai un sms trovando una

scusa qualsiasi quando ormai ero lontano, lui avrebbe
capito. Un campanile in lontananza

scandiva l’ora con due sordi rintocchi portati dal vento
che si schiantarono contro le pareti

delle case. Mi fermai prima in una piccola osteria,
quindi in tutti i posti che trovavo aperti e

che fossero disposti a soddisfare la mia sete di
evasione. La notte scivolò così tra parole

al vento e pensieri pesanti.

Mi svegliai quando ormai le ombre, stanche di nascondersi
dal sole, disegnavano le ultime

sagome sulle pareti delle case. Ruotai il polso e mi
accorsi di non avere più l’orologio.

Daniel non era in casa, sulla porta c’era un foglietto
giallo che diceva: “Sono al lavoro,

quando ti svegli (cosa molto difficile) chiamami, a dopo
ciao _”.
Dal frigo usciva un forte

odore di cipolla e, increspando la fronte espirando
lungamente, presi di scatto la bottiglia

di latte aperta richiudendo lo sportello in tutta fretta.
Frugai nella dispensa alla ricerca di un

Aulin grattandomi la schiena, appoggiai le labbra al
collo della bottiglia che tenevo in mano

e ingurgitai un paio di quelle pasticche lucide. Di colpo
mi venne in mente che fra poche

settimane la mia vita sarebbe cambiata forse per sempre e
provai una fitta allo stomaco.

Sentivo le budella contorcersi dentro di me e non era una
sensazione piacevole. Trovai i

jeans della sera prima perfettamente piegati e sistemati
accanto alla libreria. Frugai nelle

tasche per controllare ci fosse tutto. Chiavi di casa,
due accendini di qualcuno che

sicuramente mi ero intascato la sera prima, portafogli e
telefono, c’era tutto tranne

l’orologio ma feci comunque un lungo sospiro liberatorio.
Il cellulare di Daniel era spento,

la sveglia segnava le cinque del pomeriggio, pensai che
la serata cominciava alle otto e

che non ci rimaneva molto tempo per prepararci. Così
rimandai la doccia a più tardi e,

senza nemmeno lavarmi il viso, m’infilai i jeans e scesi
le scale a due a due con il cervello

che ad ogni scalino sembrava sbattere contro il cranio,
poi in un attimo ingrossai il

mucchio di gente per le calli. Faceva molto caldo e dopo
pochi metri avevo già il colletto

della camicia inzuppato, notai che molti turisti erano
vestiti in modo pesante nonostante il

caldo, mentre altri accartocciati per terra cercavano un
po’ di refrigerio sventolandosi il

viso con le cose più strane. Daniel suonava il basso in
un gruppo e passava le giornate

chiuso in un vecchio magazzino smesso a solleticare
quelle quattro corde. Quasi ogni sera

suonava in un locale diverso e per arrotondare tre
pomeriggi alla settimana lavorava in un

ristorante che per i veneziani degli anni ottanta era
stato una vera istituzione: il “Paradiso

perduto”. Il forte mal di testa mi stavo passando e
quando arrivai all’ingresso del locale era

solo un ricordo. Abbassai la grossa maniglia mentre un
cardine sbilenco della porta

annunciava il mio arrivo ai presenti. Entrai e dietro
all’enorme bancone di legno dove

campeggiava ironica la scritta “Divieto di ormeggio”
c’era il solito Maurizio. Erano da poco

passate le sei e il suo alito, intriso di vino e sardine,
già investiva ogni cosa nell’arco di un

paio di metri. Aveva una bianca barba incolta e folta
come i capelli, occhi scavati e un

fisico tarchiato che lo faceva ondeggiare pesantemente ad
ogni passo. Lo salutai come

fanno i militari portando la mano destra tesa alla
fronte, borbottò qualcosa e sparì nel

retro. Era un tipo curioso, c’erano molte ombre nel suo
passato che alimentavo le

leggende più strane. Impossibile dargli un’età precisa e
lui a chi glielo chiedeva rispondeva

semplicemente che l’età di una persona è solo un numero.

<Ei , com’è
che hai telefono spento?> Daniel era in cucina con le mani affondate in un

secchio enorme zeppo di seppie appena pescate, si girò di
scatto e disse: <Allora sei vivo,

pensavo non ti saresti più svegliato visto l’epilogo
della serata> poi riprese: <Ho perso il

telefono cazzo e con lui tutta la rubrica porca
puttana> <Beh, se ti può consolare io ho

perso l’orologio> replicai. <Tra due ore dovremo
essere all’Arsenale, hai sentito Scarface

per caso?> <Ti ho appena detto che ho perso il
telefono e mi chiedi se l’ho sentito?!?>

Tuffò di nuovo le mani in quella melma nera e uno schizzo
denso mi sfiorò una scarpa.

<Ci siamo svegliati male oggi, ehhh?> Dissi
sorridendo cercando di stemperare la

tensione <Piuttosto> chiesi dirigendomi verso il
bagno <Che ne dici se ti do una mano!?

Potrei preparare la pasta fresca come l’altra volta
mentre tu finisci con l’”inchiostro”…>

<Ok> disse mentre tirava un sospiro, <Allora
vado in bagno e torno> dissi portandomi le

mani alla cintura. Il locale era una distesa di tavoli
distanti tra loro pochi centimetri, circa

duecento gambe di legno poggiavano su di uno splendido
quanto sformato pavimento

veneziano. Si diceva che una volta tra un tavolo e
l’altro ci potesse passare un cane con

una scopa tra i denti, l’inflazione aveva accorciato le
distanze, pensai. Per arrivare al

bagno si doveva tagliare un piccolo cortile a cielo
aperto facendo attenzione a non

scivolare sulla superficie lucida e umida del pavimento.
Anche la porta del bagno era di

legno intriso dei peggiori olezzi e la fessura dal
pavimento doveva essere di almeno venti

centimetri. Mi ricordai di quella mattina che sorpresi
Patrick e Sonja scambiarsi effusioni

pensando di essere soli dentro a quel metro quadro
indifferenti agli odori di ogni genere

che scaturivano da quell’ anfratto. La luce della piccola
finestra in alto proiettava il groviglio

di ombre sul pavimento lucido e lasciava poco spazio
all’immaginazione. Patrick era un

fotografo francese sulla cinquantina, si era trasferito
in Italia dopo la rottura con la

compagna e dormiva e lavorava nel suo claustrofobico
“Atelier de foto” a due passi dal

locale, dove trascorreva la maggior parte del tempo. Era
diventato alcolista dopo che il

figlio reduce da tre anni di carcere, aveva trovato la
morte in un incidente stradale

tornando dal matrimonio di un amico. Sonja, invece, di
origini croate, faceva la

parrucchiera anche se la sua vera passione era la poesia,
in quei quarantacinque anni si

celavano sofferenze indicibili e una lista infinita di
incontri sbagliati. Da qualche anno

aveva ripreso a bucarsi e molto spesso portava sul viso i
segni di qualche notte in

compagnia dell’ennesimo uomo sbagliato. Due puntine
colorate arpionavano alla parete

un foglio di carta sbiadito dal fumo, era una delle sue
poesie, mi appoggiai ad un tavolo e

presi a leggere:

PASSI DI UN ADDIO

L’ombra della sera annegò ogni cosa

slegando emozioni e pensieri profondi,

lei se ne stava sdraiata e confusa

mentre l’uomo distratto le sfiorava i
contorni

I pensieri allagavano le menti di noia

e scanditi dal nero morire di onde

soffocavano sguardi privi di gioia

creando voragini interne profonde

Un disarmante silenzio incombeva nell’aria

creando una culla d’imperante disagio

solo la voce del mare rimbalzava precaria

albergando rumori di uno strano presagio

Gli occhi erano come il riflesso di un prato

e mentre alcune parole spiccavano il volo

di quello che tra i due c’era stato

rimase soltanto un rumore di passi sul molo.

Niente è per sempre. 15 Ottobre 1990

Sonja.

<Allora cos’hai deciso di fare, mi aiuti oppure
no?!> Era Daniel che con il grembiule lercio

d’inchiostro se ne stava ritto sulla porta della cucina.
<Hai ragione scusami, arrivo>.

Diciotto uova, quindici chili di farina 00, acqua, sale.
Sistemai gli ingredienti sul tavolo

vicino all’impastatrice e cominciai a riempire la bocca
di quello strano arnese con della

farina, ci piantai dentro due uova intere che per un
attimo mi parvero due enormi occhi

gialli che mi fissavano. Avevo fatto quel lavoro molte
altre volte e mi divertivo molto. Ci si

impiegava un po’ di tempo, ma la soddisfazione che si
provava a veder spuntare i primi

lacci di pasta fresca mi bastava.

Maurizio uscì dalla cucina con un pezzo di sigaro spento
in bocca. Si poteva indovinare da

che lato era solito tenerlo in bocca dal colore giallo
dei baffi che coprivano anche gran

parte delle labbra.

Nel locale a quell’ora c’erano solo un paio di clienti.
Uno appoggiato al bancone con lo

sguardo perso dentro a del succo d’uva, l’altro seduto e
basta vicino alla vetrata che dava

sul canale, uno sui settanta, l’altro sui trenta, uno
stempiato con la pelle abbronzata dal

tempo, l’altro con stoppie di capelli fino alle spalle e
dalla cute bianca come cotone. Solo

una cosa li rendeva simili, trasudavano entrambi
solitudine.

Dopo circa mezz’ora avevo riempito sei piatti enormi di
pasta super fresca che avrei

mangiato anche cruda tanto sembrava appetitosa. Stavo per
riempire per l’ultima volta

l’impastatrice quando Maurizio trascinando pesantemente
una delle sedie si avvicinò

appoggiandoci la schiena e l’immenso corpo. Per un
secondo rimasi a fissarlo mentre

tormentava il suo mozzicone di sigaro spento, lui non
disse una parola né tanto meno mi

guardò. Stavo per dire qualcosa ma fui interrotto
dall’arrivo di uno dei camerieri che

lavoravano in quel posto. Era un tipo smilzo di quelli
che vedi prendere a pugni i punch

ball dei luna park d’estate, camicia bianca, gilet nero
di pelle, jeans nero e scarpe nere.

Leggermente stempiato ma con lunghi capelli lisci fino
alle spalle che scoprivano una

fronte bianca e spessa come un panetto di burro. Salutò
con un ciao collettivo facendo il

gesto con la mano e mi sembrò di vedere un orologio
identico al mio su quel piccolo polso.

S’infilò nel retro senza aggiungere una parola. Guardai
il mio di polso sinistro; al posto

dell’orologio sembravo avere un bracciale di carne bianca
per via dell’abbronzatura e

pensai che fra poche ore avrei rivisto la donna del
giorno prima. Evidentemente Maurizio

osservando le mie guance tirarsi leggermente indietro
disse: <Perché sorridi?> La

domanda mi colse di sorpresa e sulle prime non risposi.
Daniel sbucò d’improvviso

dicendo che tra un po’ sarebbe stato il caso di levare le
ancore e sparì di nuovo in cucina

senza aspettare nessuna risposta. Non ci conoscevamo
molto bene ma c’era rispetto tra

me e Maurizio. Avevamo parlato poche volte assieme, per
lo più in quelle sere dove dopo

l’orario di chiusura si abbassano le serrande e ci si
gode l’ultima fetta della nottata

toccando qualsiasi discorso e comunque sia sempre troppo
ubriachi per connettere e

ricordarsi gli argomenti il giorno dopo. <Ti voglio
raccontare una cosa> disse a un certo

punto fissando il pavimento. <So quello che stai
provando in questi giorni e so che non è

facile> Daniel, pensai, quello scemo andava in giro a
raccontare a tutti un sacco di cose,

non riusciva mai a tenere la bocca chiusa, non che ci
fosse nulla da tener nascosto per

carità, ma erano pur sempre affari miei.

<Anni fa quand’ero un po’ più giovane di te adesso
odiavo questa città, odiavo gli abitanti,

odiavo l’odore e detestavo perfino il volo dei
gabbiani> Si versò mezzo bicchiere di vino

dalla brocca che teneva in mano e riprese <Mi sentivo
in gabbia, chiuso dentro a una

prigione senza via d’uscita con una voce che mi diceva di
andarmene da quel posto>.

Tolsi il guscio dalle ultime tre uova rimaste e lo
guardai mentre riprendeva fiato, non

sapevo perché volesse parlarmi di quelle cose, ma
ascoltarlo mi piaceva, versai dell’acqua

e un pizzico di sale e lui riprese: <Così un giorno me
ne andai pensando fosse per

sempre. Era una mattina di gennaio, sarei dovuto partire
in autunno ma non volevo dare

un ulteriore dispiacere a mia madre molto anziana, così
passai il Natale a leggerle i

racconti del suo autore preferito> Bevve un altro
sorso e riprese <Quella mattina, dicevo,

sulla soglia di casa non mi girai nemmeno a guardarla per
l’ultima volta e ancora oggi

sento i suoi occhi piantati come giavellotti dietro la
mia schiena mentre mi allontano col

mio carico di bagagli e di amarezza>. <Sono stato
in molti posti, Alan, dopo quasi un anno

a Roma ho attraversato l’Europa da est a ovest, mi sono
perduto per il Messico e Sud

America, ho visitato l’Oriente e ho cercato di fermare il
tempo tra i colori e gli odori

dell’India > <Ho fatto ogni tipo di lavoro,
viaggiato con qualsiasi mezzo e in qualsiasi modo

e situazione e incontrato un fiume di gente, ma credimi,
non ho mai trovato la felicità che

pensavo di trovare> <Poi un giorno un amico mi
raggiunse a Goa facendomi avere un libro

ed una lettera scritta da mia madre pochi mesi prima di
morire. Era una lettera dalla

calligrafia incerta, zeppa di errori ma traboccante di
quell’amore che solo una madre può

avere per un figlio. Nella lettera mi parlava della sua
infanzia, di dov’era cresciuta, di come

fossero cambiate le cose in tutti quegli anni descrivendo
situazioni che a voce forse non

aveva mai trovato il coraggio di raccontare. Mi disse che
pochi mesi dopo la mia partenza

nella vecchia casa in campagna dov’era cresciuta, aveva
trovato per la prima volta nella

sua vita un piccolo quadrifoglio e che subito aveva
pensato a me. Mi scrisse che quando si

trova un quadrifoglio bisogna regalarlo subito a qualcuno
a cui si vuole bene, così lo

stesso giorno prese quel libro e con estrema cura ce lo
infilò dentro.> Ci fu un momento di

silenzio, poi mentre accompagnavo quei morbidi capelli di
pasta sull’ultimo piatto gli chiesi

<Che libro era?> Mi guardò con gli occhi lucidi e
mi disse: <Non c’era nemmeno una

parola in quel libro, Alan, solo pagine bianche e nude
come la mia esistenza in quel

momento. Sulla copertina il titolo diceva: “Se cerchi una
risposta, la troverai in queste

pagine”. Fece fare un volo di tre metri al pezzo di
sigaro che finì nel camino acceso e

aggiunse: <La settimana successiva io e il mio amico
eravamo su un volo per Venezia,

non avevo ancora un pelo bianco e da quel giorno non mi
sono mai più mosso da questo

posto> Rimasi con la bocca socchiusa ad ascoltare
questo vecchio barbuto ubriaco che

senza nemmeno riprendere fiato aggiunse: <E’ inutile
scappare dall’inquietudine del

vivere, ti seguirebbe ovunque tu vada. Quando i nostri
piedi per la prima volta toccano il

suolo dove siamo nati, un cordone ombelicale invisibile
ti unisce per sempre a quella terra.

Se non si può vincere l’inquietudine dell’essere, bisogna
almeno provare a conviverci e

scappare troppo spesso non è la soluzione> Continuai a
rimanere in silenzio, non avevo

aperto bocca per tutto il tempo e uno strano formicolio
mi stava scendendo dal collo fino

alle gambe. Cominciarono ad arrivare i primi clienti,
Maurizio si alzò a fatica e dondolando

li accolse col suo solito modo di fare.

Uscimmo dal locale quando fuori era già buio, una densa e
appiccicosa nebbiolina si

attaccava alle guance penetrando in mezzo alle ossa,
eravamo in ritardo pazzesco. Cercai

di pescare in fondo alla solita tasca dei jeans il
cellulare ma non lo trovai, stavo per

tornare indietro ma vedevo Daniel davanti a me che mi
diceva di correre che non c’era

tempo. Gli dissi di aspettare un attimo, tornai nel
locale e trovai la donna che avevo visto

alle zattere seduta ad un tavolo con l’uomo del giorno
prima. Rallentai il passo e le sfiorai

quasi i capelli con il dorso della mano, trattenendo il
respiro incamerando quel suo

profumo sperando impregnasse i miei polmoni, quindi
cercai il telefono. Centrai la cucina e

chiesi al tipo smilzo se per caso avesse visto un
telefono da qualche parte e questo senza

girarsi mi rispose di no senza aggiungere altro. Con la
coda dell’occhio intanto vidi la

creatura attraversare il cortile per dirigersi verso il
bagno, dimenticai il telefono e mi

precipitai in bagno. Bastò uno sguardo per capire che i
nostri corpi si sarebbero uniti.

Chiudemmo la porta di legno alle nostre spalle anche se
sapevo che se qualcuno fosse

entrato, la fessura avrebbe lasciato poco spazio
all’immaginazione. Ci baciammo come

adolescenti in preda ad una tempesta ormonale, lei, come
il giorno prima, teneva sempre

la stessa mano sul ventre, mi slacciai la cintura e
alzandole un poco il vestito la presi

fissando il poster incollato sulla porta. Non dicemmo una
sola parola. Vista da vicino

sembrava molto diversa dal giorno prima, i capelli erano
lisci, la pelle abbronzata e il suo

alito pesava più dell’aria. Comunque l’avrei rivista più
tardi all’inaugurazione e dopo un

lungo bacio, inforcai la porta d’uscita senza più pensare
al telefono. Al posto dell’uomo che

le sedeva di fronte adesso c’era una signora anziana, ma
non ci pensai poi molto. Daniel

non mi aveva aspettato e presi a correre. La foschia era
sparita e un fiume di gente

sembrava venirmi incontro mentre sembravo solo in quella
folle corsa .Affrontai due,

cinque, dieci ponti e mentre stavo per scendere una delle
rampe, inciampai su di un

gradino rotto cadendo rovinosamente a terra.

Quando aprii gli occhi ero sempre nella soffitta di
Daniel, a torso nudo sdraiato sul divano

ma con ancora i jeans infilati sopra ad un solo calzino.
Ero fradicio di sudore e avevo un

fortissimo mal testa, la bocca era impastata e non
riuscivo a tenere gli occhi aperti perché

una luce fortissima entrava dalla finestra.

Dalla cucina arrivava la voce del mio amico: <Caffè
doppio o pasta lunga cacio e pepe?>

Mi ci volle un po’ per connettere, poi sentii sempre la
voce di Daniel che diceva: <Sbrigati,

la fai tu la doccia per primo o a faccio io? Siamo leggermente
in ritardo> Soggiunse in

modo ironico. Guardai d’istinto l’orologio abbracciare il
mio polso sinistro e vidi che erano

da poco passate cinque. Mi sedetti sul bordo del letto e
chiesi: <Scusa ma in ritardo per

cosa?> Non passarono cinque secondi che lo vidi
comparire sullo specchio della porta del

soggiorno e chiedermi <Sei sicuro di stare bene? Tra
tre ore c’è l’inaugurazione e fra

meno di un’ora dobbiamo essere all’Arsenale, ricordi?>
<Va bene che stamattina sei

rientrato rovesciando tutto quello che ti capitava a tiro
e sono riuscito a fatica a metterti a

letto…, ma si può sapere poi dove sei stato?!?> <In
giro> risposi distratto senza pensare

con lo sguardo perso nel vuoto. Avevo dormito tutto il
tempo, non c’era stato nessun

pomeriggio al “Paradiso perduto” e nessuna avventura
consumata nei bagni di quel locale.

Tirai indietro le guance e notai un piccolo libro sul
letto che probabilmente era caduto dalla

libreria sopra il divano. La copertina diceva: “Tutto
quello che gli uomini hanno capito delle

donne” lo aprii e dentro c’erano solo pagine bianche.
Sfogliai il libro una diecina di volte

cercando qualcosa ma non c’era nulla. Mi trascinai in
cucina e chiesi a Daniel se per caso

fosse stato da Maurizio quel pomeriggio. Strinse la moka
del caffè e accese il gas, poi mi

chiese per la seconda volta se ero sicuro di sentirmi
bene. <Perché continui a chiedermi

se mi sento bene scusa?> Dissi cercando gli occhiali
da sole <Ma ti sei rincitrullito?! Di

sabato non lavoro mai al Paradiso !!!>.

Sembrava tutto così vero quello che avevo sognato,
pensai, che ancora mi sembrava

impossibile fosse solo il frutto della mia fantasia.

Decisi di farmi una doccia, sperando in quel modo di
lavare anche i sogni che avevo fatto.

Non riuscivo a togliermi dalla testa le parole di
Maurizio e anche quando l’inaugurazione fu

solo un ricordo lontane quelle frasi continuarono ad
echeggiarmi dentro come grida in un

canyon.

L’evento fu un successo, Araki Nabuyoshi partì il giorno
seguente giusto il tempo di

leggere sui giornali una favorevole e calorosa critica da
parte dei giornalisti intervenuti la

sera prima. Quella sera cercai con gli occhi la donna per
tutto il tempo in mezzo ad un

mare di gente. Chiesi perfino a scarface se l’avesse
vista, ma niente. Non la rividi mai più,

mi rimasero soltanto pochi ricordi sbiaditi e dopo
qualche mese sparirono anche quelli.

La domenica seguente verso l’ora di chiusura andai nel
locale di Maurizio, quando entrai

stava asciugando delle posate seduto ad un tavolo. Ci
salutammo senza entusiasmo,

ordinai un caffè e cercai la poesia di Sonja affissa al
muro. Quando la trovai, la mia

attenzione fu catturata da un piccolo foglio di carta che
si perdeva tra la confusione di

pagine sul quel muro. Su c’era scritto: “E’ inutile
scappare dall’inquietudine del vivere, ti

seguirebbe ovunque tu vada. F.V.” Trasalii in silenzio,
cercai di deglutire ma le ghiandole

sotto alla mia lingua sembravano in vacanza. Strappai
quel foglietto di carta e parandomi

di fronte gli chiesi sventolando il foglio: < Sei
stato tu a scrivere questo?> <Leggimi cosa

c’è scritto non ho gli occhiali> replicò. Lessi d’un
fiato la frase e attesi. <No> rispose <Ma

so chi è stato> E’ una storia lunga e non ho certo
voglia di star qui ad annoiarti, ma ieri

pomeriggio è passato a trovarmi un mio vecchio amico che
non vedevo da anni e che

quando non stavo più in Italia si prese cura di mia
madre. Se non fosse per lui che quasi

trent’ anni fa venne a Goa a cercarmi non so dove sarei
in questo momento. Era stata mia

madre a chiedergli di farlo, doveva trovarmi e lui lo ha
fece. Abbiamo parlato un po’ e

bevuto molto poi a notte fonda prima di andarsene ha
scritto quella frase> Si fermò un

attimo con un cucchiaio in mano a guardarmi. <Ma
perché lo vuoi sapere?> Avrei voluto

trovare la forza per parlare, per raccontargli tutto ma
mi uscì solamente un <Grazie>. Lo

salutai e mi accomiatai ancora con quella frase che
continuava a ripetersi dentro me. In

quella calda notte d’estate avrei trovato la risposta ai
miei dubbi. Camminai per ore

andando in quegli angoli di Venezia dove raramente si
avventurano i turisti. Mi fermai per

alcuni minuti sotto ad un balcone ad assaporare la
melodia inconfondibile e malinconica

della tromba di un Miles Davis in “Round Midnight”.
M’infilai per calli sconosciute per ore

senza una meta precisa come se stessi cercando luoghi e
situazioni che non avevo

ancora visto e vissuto. Dal vecchio quartiere ebraico,
nella zona di Cannaregio, posai lo

sguardo verso est dove vidi il chiarore dell’alba
annunciare un nuovo giorno. “E’ inutile

scappare dall’inquietudine del vivere, ti seguirebbe
ovunque tu vada”. Continuavo a

pensare a quella frase. Puntai il naso all’insù e decisi
di giocarmi il futuro a testa o croce.

Da ragazzino facevo sempre questo gioco prima di un
compito in classe; se per esempio

facevo canestro con una pallina di carta in un cestino a
sei metri di distanza, il compito

sarebbe andato bene, era molto semplice e altrettanto
stupido. Così quella sera, seduto

sul bordo della vecchia fondamenta, decisi di chiudere
gli occhi e di aspettare che il primo

aereo squarciasse quella fetta di cielo cobalto sopra
l’aeroporto. Una volta aperti se

l’aereo fosse stato nella fase di atterraggio sarei
rimasto, viceversa sarei partito. D’un

tratto mi ricordai un aforisma del grande Francois
Voltaire che diceva: “Il vero viaggio di

scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma
nell’avere nuovi occhi”. Chiusi i miei

con la testa tra le mani, inspirai lentamente e aspettai
in silenzio. Quando il frastuono di un

jet sopra la mia testa si fece sempre più vicino e forte,
aprii gli occhi, mi alzai e senza

guardare la direzione in cui andava, pugni in tasca
puntai dritto verso casa.

:p><�d���5

© www.dariocamilotto.com
All rights reserved.
Using Format