Quel tango a San Telmo

Mi arrampicai a fatica fino al terzo
piano scivolando lungo le pareti unte di passato. La canicola continuava a
seguirmi e quando mi fermai davanti alla porta con la scritta “Hernandez” avevo
la fronte imperlata di sudore. Controllai di nuovo il nome scritto a penna sul
foglio di carta, pescai la chiave dalla tasca ed entrai. L’appartamento era
quasi vuoto tranne un grosso tavolo e due sedie relegate in un angolo del soggiorno.
La superficie di legno del pavimento si muoveva ad ogni mio passo spezzando la
cortina di silenzio in cui quel luogo sembrava
immerso. I soffitti erano altissimi e dalle imposte filtravano decine di
lame di luce oblique e calde, perfettamente intonate al pomeriggio torrido. Mi
sedetti pesantemente su di una sedia impagliata e lessi un biglietto con sopra
il mio nome. “Ciao, spero il viaggio sia andato bene, nel frigo troverai
dell’acqua fresca e qualcosa da mangiare, sarò a casa verso le 20:00, a
stasera, un bacio, Cristina.”

Ci eravamo conosciuti in un locale a Madrid
due anni prima durante uno dei miei viaggi di lavoro. Era entrata nella mia
vita senza bussare e senza che potessi far nulla per evitarlo. Travolti dagli
eventi e con la complicità del suo lavoro per la compagnia aerea di bandiera
Argentina, c’incontravamo spesso, soprattutto in qualche capitale europea. In
quel momento però, a San Telmo, a casa sua, mi sentivo un clandestino e uno
stronzo. Non mi aveva nascosto lo splendido rapporto con il suo compagno e
forse per la distanza, forse per egoismo, non mi ero mai fatto troppe domande cedendo
alle complicate logiche della passione. Ora però ero lì, tra le sue cose, nella
sua terra, a sniffare l’odore delle vie
dov’era cresciuta e quella sera avrei incontrato anche il suo compagno.

Cercai nel frigo dell’acqua, e vinto dai
morsi della fame, tagliai un pezzo di formaggio tenero e lo chiusi tra due
fette di pane scuro. Non sapevo che ore fossero ma, dall’inclinazione dei raggi
che col passare del tempo si stavano allungando, doveva essere metà pomeriggio
ed ero troppo stanco per uscire. Così presi dalla borsa il mio taccuino ed un
plico con numerosi articoli di giornale e altro materiale che Pedro, un mio
collega e amico, mi aveva puntualmente fatto trovare all’aeroporto. Cominciai a
riordinare i pensieri cercando di concentrarmi su quella montagna di parole di
carta. Cominciai a leggere un manifesto, cerchiato di rosso sicuramente dal
buon Pedro, che recitava così:

“Julio Simon, sottufficiale conosciuto come Turco
Julian e’ stato accusato di 58 delitti commessi durante la sua attività nei
centri clandestini di detenzione dove ha praticato la tortura nei riguardi dei
detenuti. Julio Simon ha partecipato a molti sequestri, fra i quali quello dell’invalido
Gilimberto Ponac nella stazione di Ciudadol il 7 dicembre 1978, ed e’
profondamente antisemita. Julio Simon ha inoltre applicato per un intero
pomeriggio una scarica di 220 volts sulle tempie della sequestrata Giulia
Zabala Rodriguez. Nel 1985 il Centro studi sociali (Cels) ha chiesto l’arresto
del sottufficiale per l’omicidio di Mario Lerner avvenuta nel 1977. In
quell’epoca Julio Simon e’ tornato a fare parte della polizia federale nel
Commissariato di Paso des Libres (Corientes). Tutti questi crimini sono stati
ampiamente denunciati sui giornali e non ci sono state smentite.”
Il manifesto era firmato dalla “Associazione ex
detenuti e desaparecidos” di Buenos Aires. Per un attimo pensai che oltre ad
essere uno stronzo ero anche un ipocrita:
quella sera infatti, come dicevo, avrei conosciuto Manuel, il ragazzo di
Cristina. Suo fratello era stato uno dei trentamila scomparsi e ci avrei
scritto il mio pezzo. Le lame di luce intanto continuavano ad arrampicarsi
sulle pareti imbiancate di fresco e, appoggiata la testa sul tavolo, crollai
sfinito in un sonno profondo.

Quando bussò alla porta
faticai a tornare alla realtà e barcollando andai ad aprire. Mi gettò le
braccia al collo e senza dire una parola incollò le sue labbra alle mie.
Cristina era splendida come sempre e sfoggiava un sorriso luminoso. Lunghi
capelli color ebano coprivano le spalle nude e abbronzate, mentre un vestitino
leggero le cadeva fino alle caviglie scoprendo solo un piccolo braccialetto che
le avevo preso un giorno a Parigi. Parlammo un po’ di noi, poi mi disse che
Manuel ci avrebbe aspettato di lì a poco a Plaza Dorrego, dove avremo cenato.
La piazza di epoca coloniale era bellissima. Dal lunedì al sabato ci si poteva
accomodare su sedie di plastica e assistere a uno spettacolo di tango bevendo
qualcosa, oppure si poteva andare a curiosare nel mercato hippy
dell’artigianato che si teneva ogni giorno lungo un lato della piazza. La
domenica, le bancarelle di artigianato occupavano lo spazio per la Feria de
Pedro San Telmo.

Manuel mi accolse come se mi conoscesse da sempre. Cristina
evidentemente le aveva parlato molto di me e questo amplificava il mio
imbarazzo. Ordinammo tre birre medie e del “pescado” fritto e nell’istante in
cui il cameriere appoggiò il vassoio sul nostro tavolo si accesero le luci dei
lampioni. Al secondo giro di birra trovai il modo per rompere il ghiaccio e
parlare del fratello, così per mezz’ora srotolai
le domande che mi ero preparato. Percepivo il suo disagio mentre lucidi
riaffioravano i ricordi di questa storia e cercai di essere il meno invadente
possibile. Alla fine comunque avevo abbastanza materiale per scriverci qualcosa.

Dopo cena ci raggiunsero due amiche di Cristina, invitate di
proposito, e ci fu una piacevole conversazione fino a quando una di loro mi
disse se volevo ballare. La piazza era gremita di coppie che sfiorandosi tra
loro mettevano in scena uno splendido spettacolo sulle note e i ritmi di tango
e di milonga. Era da sempre il mio punto debole. Ero completamente negato per
il ballo e le attività fisiche in generale, così inventai su due piedi una
scusa e declinai l’invito. Manuel e Cristina invece si alzarono cercando con lo
sguardo la nostra approvazione e si lanciarono in quella che fu per me una rivelazione.

Sulle note di una composizione del maestro Juan D’Arienzo,
cominciarono a girare su se stessi intrisi di un’eleganza straordinaria. Lei si
faceva guidare regalando alla vista movenze sensuali a me sconosciute,
abbandonandosi al ritmo di questa musica che, come qualcuno disse, non è una
danza ma un’ossessione, passionale e malinconica. I piedi si accostavano uno a
fianco all’altro sfiorandosi pronti a fare da perno per un nuovo movimento sinuoso.
A volte il viso di lui affondava nei suoi morbidi capelli lasciando cadere dalle
labbra chissà quali parole. Provavo sensazioni nuove. Non era gelosia ma piuttosto
una netta presa di coscienza. A ritmo cadenzato una delle sue gambe si
avvinghiava attorno a quella di Manuel per scivolare dolcemente fino alla caviglia.
Era in questi momenti che il lungo vestitino lasciava scoprire la forma morbida
e affusolata delle sue gambe regalando agli occhi uno spettacolo suadente. Non
li persi di vista un attimo, nemmeno quando Clara, una delle due amiche di
Cristina, mi chiese se volevo bere un’altra birra. Con il movimento della mano
declinai senza nemmeno guardarla e fu in quel momento che tutto mi apparve
chiaro e limpido come un’aurora boreale. La musica stava scandendo le sue
ultime note e, l’attimo prima che i rintocchi del piano si spegnessero, il
ginocchio destro di lui era piegato in avanti e la gamba sinistra distesa
dietro la schiena, mentre lei, viso a viso, era completamente abbandonata tra
le braccia di Manuel, tenendo le gambe incrociate e distese dietro di lei. Si
reggevano a vicenda in un equilibrio perfetto, uno non avrebbe retto senza la
presenza dell’altro. Tutto mi apparve chiaro. C’era il fuoco della passione nei
loro occhi e io non avevo nessun diritto di spegnerlo con il ghiaccio del mio
egoismo da reporter.

Decisi che il mattino seguente sarei andato all’aeroporto.
Quando dalla finestra vidi il taxi fermarsi davanti all’edificio, raccolsi il
biglietto dal tavolo del soggiorno dove campeggiava ancora il mio nome e,
impugnata la matita, scrissi solo una parola: dimenticami.


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