My September 11th

New York 9/11 2001 - 2021


Data indelebile e
pagina nera della nostra memoria. Sono passati vent’anni ma il ricordo è ancora
lucido: ognuno di noi sa perfettamente dov’era e cosa stava facendo quel martedì
di settembre. Questa è la mia storia.


Era l’alba dell’undici
settembre 2001. Rientravo dal Canada dopo aver trascorso la notte in uno dei
claustrofobici autobus di linea statunitensi. Dal New Jersey, alcuni minuti
prima d’imboccare il Lincoln tunnel per ritornare sull’isola, ero rimasto senza
fiato a contemplare il sole farsi largo tra i grattacieli, galleggiando fra le
luci e i colori dell’alba. Ogni volta che da lontano scorgevo l’inconfondibile
profilo di Manhattan sentivo lo stomaco contorcersi e liberare emozioni
assolute ed indescrivibili. Anche quel giorno era lì: raggiante albergo di
sogni, groviglio di vite, teatro di speranze. Tra qualche mese avrei
chiuso la parentesi newyorkese e avevo un grosso conflitto interno, da un lato
la gioia del ritorno, dall’altro la sensazione di lasciare un’amante, non una
città. Mi accoccolai verso il finestrino che in un attimo si appannò e ripresi
a leggere. Al Port Authority Bus mi accolse il solito forte e denso odore di
piombo e, fra i corridoi, cominciai l’eterno zigzagare tra bagagli e gente
accartocciata ovunque; in pochi minuti sbucai all’angolo fra la 42ma e l’8th
Avenue e mi sentii di
nuovo a casa.

Erano da poco
passate le sette, l’aria era frizzante e, sebbene avessi dormito poco durante
il viaggio, non avevo nessuna voglia di tornarmene subito a casa. Come sabbia
in una clessidra il tempo scivolava inesorabile e sentivo il bisogno di
assaporare ancora quei pochi mesi fino all’ultimo istante. Così, pugni in tasca,
tagliai verso Times Square in cerca di un posto dove fare colazione. Poco
lontano trovai un posto carino dove mi scaldai dentro a un caffè bollente.
Ripresi a camminare senza meta osservando ogni singolo dettaglio. Cercavo gli
occhi della gente sperando di cogliere piccoli elementi della loro esistenza,
catalogavo ogni singolo odore tentando di percepirne la provenienza, sentivo
l’energia della città graffiarmi la pelle: ero intriso da una indescrivibile
voglia di vivere.

Dopo aver girovagato
a lungo come un “giovane Holden Caulfield”, mi ritrovai nei pressi di Bryant
Park e di fronte alla Public Library aspettai l’autobus per downtown.

Scesi alla 23ma
dirigendomi a piedi verso Union Square e ad un tratto vidi quel cielo indaco sporcarsi:
una nube densa di fumo tagliava la punta meridionale dell’isola da ovest a est.
D’istinto accelerai il passo ritrovandomi all’imbocco di University Place. La
scena era incredibile: l’enorme nube di fumo, densa e nera, sgorgava dalla
torre nord del WTC e oscurava il cielo. Dentro di me i pensieri sgomitavano cercando
di farsi breccia nella mente. Pensai ad un incendio. Non riuscivo a parlare e
tutta la stanchezza era sparita, l’adrenalina stava riempendo ogni cellula del
mio corpo.

La gente era
attonita: qualcuno se ne stava impietrito con lo sguardo stampato verso sud, qualcun
altro continuava a camminare in fretta senza scomporsi. Osservai il traffico
scivolare lento nell’ora di punta e notai una squadra di operai che non smise
per un attimo di lavorare. Con uno scatto fulmineo decisi di andare a vedere
più da vicino cosa stesse accadendo e scesi di corsa le rampe del metrò. Lì
sotto nessuno sembrava essersi accorto di nulla, una signora stava bevendo il
suo caffè imprecando per essersi sporcata la gonna, altri erano assorti nella
lettura abituale del quotidiano, altri ancora seduti fissavano il pavimento: tutto
sembrava normale. Presi un treno della linea verde sapendo che in poche fermate
avrebbe raggiunto il WTC, ma da subito decisi di fermarmi alla Brooklyn Bridge-City
Hall da dove avrei potuto osservare la situazione a debita distanza. Ingrossai
il mucchio di gente che affollava il vagone e subito l’attenzione di tutti fu
catturata da un omone sulla cinquantina, visibilmente sconvolto, che raccontava
quello che aveva visto. Ci disse che un aereo di linea si era schiantato su una
delle torri, che aveva visto delle persone schiantarsi al suolo e, asciugandosi
le lacrime, ci implorò di non avvicinarci al WTC. A quel punto gli occhi della
gente cominciarono ad allagarsi, fioccarono domande e la confusione prese il
sopravvento.

Non ci volle molto a
capire che la metropolitana stava avanzando a scartamento ridotto e che, quindi,
era davvero successo qualcosa di grave. A fugare ogni dubbio fu la voce metallica
e stridula dell’altoparlante che invitava i passeggeri a rimanere calmi, a
scendere in modo ordinato perché che la prossima sarebbe stata l’ultima
fermata. Dopo venti lunghi minuti le porte del vagone si aprirono e la gente
cominciò ad incanalarsi verso l’uscita ad una velocità folle. Lo spettacolo che
ci attendeva era davvero agghiacciante: c’era un fiume di gente che gremiva
Park Row e il ponte di Brooklyn. E davvero non potevo crederci, non volevo
crederci: anche la seconda torre era in fiamme. Ero attonito, disorientato,
confuso e con un senso di angoscia tremendo. Chiesi ad alcune persone cosa
fosse accaduto ma non risposero; rubai uno scorcio di conversazione fra due
uomini dietro di me, parlavano di due aerei che si erano schiantati sulle torri
a distanza di pochi minuti, continuavano a ripetere come un mantra che i loro
amici erano ancora lì; qualcun altro raccontava di essere riuscito a scendere
svariati piani di una delle torri e di aver visto intere squadre di pompieri
salire andando incontro a quell’inferno. Ascoltando quelle parole potevo
sentire il flusso del mio sangue farsi più denso e freddo. Guardai verso il
sole cercando conforto da quella luce calda ma poi il mio sguardo allibito
s’incollò di nuovo su quella scena apocalittica. La gente era in preda alla
confusione totale, non sapevo cosa pensare, capivo solamente che era successo e
che stava succedendo qualcosa al limite della comprensione umana, che molte persone
erano morte e che molte altre stavano lottando per salvarsi. Sembrava mi fossi
appena svegliato, tanto era intensa la sensazione di intorpidimento mentale e
non capivo, continuavo a non capire se quello che stavo vivendo fosse reale o
meno. In preda ad una strana agitazione, mi incanalai verso la strada che
saliva sul vecchio ponte, cercando di non intralciare il lavoro dei
soccorritori impegnati a farsi largo in mezzo alla folla. Non potevo saperlo ma
probabilmente quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto quei vigili
del fuoco. Lo snello e bellissimo Woolworth building, con la sua guglia
verde-rame, sembrava uno spettatore impietrito quanto me. Ad un tratto un
rumore sinistro squarciò l’aria, la mia cassa toracica vibrò per alcuni
istanti, erano le 9:59. La torre sud collassò in pochi secondi sparendo tra fumo
e macerie: sembrava si fosse aperta una voragine nel terreno e che stesse
per inghiottirci. A quel punto tutto mi sembrò surreale, molta gente in preda
al panico si stava spostando velocemente in direzione est, verso Brooklyn. Dopo
alcuni istanti una tremenda nube nera si materializzò davanti ai miei occhi ad
una velocità incredibile e a quel punto ci fu il panico. L’incredulità,
assoluta protagonista dei momenti del crollo, lasciò immediatamente spazio alla
paura, un mare di fumo nero e spietato iniziò a inghiottire ogni cosa.

Mi trovai di fronte
ad un bivio decisionale: continuare verso est ed attraversare anch’io il ponte,
oppure tornare indietro verso nord
e quindi verso casa. Optai per la seconda e per un centinaio
di metri dovetti faticare non poco tra la folla che mi veniva incontro,
urtandomi continuamente. Scavalcai la cordonata pedonale e mi trovai in mezzo a una delle strade
di raccordo del ponte, la nube ormai era vicinissima e cominciai a correre
verso nord. Realizzai in un tempo brevissimo che dovevo assolutamente evitare
di respirare quella strana poltiglia e decisi di infilarmi nella hall del
Municipal Building dove avrei potuto respirare, per poi uscire non appena la
nube si fosse dissolta. Riuscii ad entrare ma appena varcata la soglia, il
personale, che probabilmente non aveva capito cosa stesse succedendo, scaraventò
me e molta altra gente verso l’uscita, incuranti del fumo che oramai potevo
vedere farsi largo ovunque ed infilarsi in ogni fessura. Nonostante le disperate
proteste venni letteralmente sbattuto fuori ritrovandomi spaventato e
disorientato in mezzo a quella poltiglia impalpabile. Cercai di respirare dentro
la maglietta e seguii la gente che scappava verso nord correndo più velocemente
che potevo mentre la gente inciampava, cadeva, urlava. Tutto nell’arco di pochi,
interminabili attimi. Poi finalmente fu di nuovo giorno e la nube ormai stanca
continuò a spostarsi lenta verso est. Camminai velocemente per qualche minuto e mi fermai tra la Green e Grand
Street impietrito ed incredulo mentre il mio cuore sembrava esplodere,
continuavo a non capire che cosa stesse succedendo. Frugai in tasca cercando il
telefono e dopo innumerevoli tentativi riuscii a parlare con un amico in Italia
e con la voce spezzata raccontai cosa stava succedendo: avevo un assoluto
bisogno di condividere quella fortissima emozione con qualcuno di veramente
vicino. Quindi riattaccai e poco dopo crollai, scoppiando a piangere senza
riuscire a fermarmi. Ad un tratto la scena sembrò ripetersi in una sequenza
orribile, la struttura della prima torre colpita stava cedendo e, sotto gli occhi
esterrefatti di tutti, si sciolse in pochi istanti sparendo, come la gemella,
in una nube scura e sinistra.

Osservai la gente
intorno a me e vidi i loro sguardi assenti fissi nel vuoto. Qualcuno piangeva
sopra il cofano di un’auto, una donna se ne stava accasciata sul marciapiede
senza una scarpa con la testa fra le mani, mentre le file alle cabine
telefoniche diventavano sempre più lunghe visto che con i cellulari era ormai
impossibile comunicare.

Di quei momenti
ricordo soprattutto la sensazione d’impotenza e la pesantezza del mio corpo:
era come se tutto il sangue d’improvviso si fosse concentrato sulle gambe
ostacolandone il normale e perfetto funzionamento. Ero stanco, troppo stanco
anche per pensare. Seguii disorientato il fiume di gente che, come automi,
risaliva verso nord, ogni tanto qualcuno con il viso deformato dal dolore si
girava scrollando la testa. Notai una piccola folla attorno ad un taxi: ritti
in silenzio ascoltavano le ultime news di un giornale radio. Quello che trapelò
contribuì soltanto a peggiorare la situazione e lo stato d’animo di tutti. Se
fino a quel momento non avevo realizzato cosa fosse accaduto e cosa stesse
ancora succedendo, ora tutto era fin troppo chiaro nella sua drammaticità. La voce
dalla radio ripeteva con ritmo sempre più incalzante che anche il Pentagono era
stato colpito, che un quarto aereo era precipitato nei pressi di Pittsburgh e
che un quinto, sfuggito ai controlli dei radar (notizia poi smentita), stava
ancora sorvolando i cieli americani. In una manciata di minuti, troppi i fatti
spaventosi e troppe le emozioni che avevano riempito il mio cuore e sconvolto
il mio corpo. A volte, rivedendo quelle immagini, sento ancora la stessa morsa
di dolore alla gola e allo stomaco. Ero spettatore inerme di una catastrofe,
giovane comparsa in un teatro di morte e, soprattutto, piccolo, troppo piccolo
anche solo per pensare. Avevo solo paura. Camminai per ore e quando tornai a
casa, nell’Est Village, ormai era sera! Solo una volta varcata la soglia, mi
resi conto di quanto tempo fosse passato, avevo un buco temporale di molte ore.
Ancora oggi dopo vent’anni non so cosa abbia fatto in quelle ore di vuoto
fisico e mentale. L’appartamento era al primo piano e così buio che non capivo
mai se fuori ci fosse il sole o piovesse. Ma ora non importava. La televisione
con le sue immagini e l’audio a tutto volume era la vera protagonista. Per un attimo
mi girai verso la porta d’ingresso deciso a uscire di nuovo, ma ero troppo
stanco e sprofondai sul divano. Ricordo due ragazzi giamaicani, amici di
Russell, il ragazzo con cui dividevo l’appartamento; non li avevo mai visti
prima, continuavano a parlarmi a raffica di cose che non capivo o non volevo
capire e, mentre annuivo in silenzio, ero rapito dalle immagini agghiaccianti
dell’accaduto.

Qualcuno bussò alla
porta, era un vicino di casa che, con voce irriconoscibile e visibilmente
sconvolto, ci raccontò di aver perso alcuni colleghi nella torre nord e di
essersi salvato solo perché svegliatosi in ritardo. Restammo tutti sconvolti
dalla notizia; declinò l’invito a fermarsi per bere qualcosa e parlare un po’,
quindi com’era venuto sparì dietro la pesante porta.

La sera scivolò
veloce sul divano e dopo cena uscii per non impazzire tra quelle mura asfissianti.
Appena fuori casa, con mio stupore, notai che la polizia aveva transennato
l’intera 14ma strada in tutta la sua lunghezza, impedendo a qualsiasi persona
non residente di oltrepassare quel confine. Mostrai il mio documento
identificativo e mi avviai verso Union Square. La cosa che più mi colpì fu
l’odore acido, metallico, acre che si respirava ovunque e che si appiccicava
ai vestiti incollandosi ai polmoni. Ovviamente non avevo mai visto la città in
condizioni simili, ferita come un animale morente. Tutto mi sembrava
diabolicamente strano, c’era un’atmosfera surreale e una tensione palpabile. Le
strade erano praticamente deserte, tutti i ponti erano chiusi, la metropolitana
bloccata, il servizio autobus sospeso, nemmeno l’ombra di un taxi, poca gente
sui marciapiedi. C’era solo impotenza e incertezza, inquietudine. Sembrava che
tutta l’energia della città si fosse dissolta come neve al sole. Camminai a
lungo. Ovunque sfrecciavano ambulanze, pompieri e polizia e le sirene dei mezzi
di soccorso risuonavano oramai nelle orecchie di tutti come una lunga sinfonia
di morte. Tentai di mangiare un hamburger ma non riuscii a finirlo e rimasi
alcuni istanti a pensare agli amici e alle persone care lontane. Tornai nello
stesso punto dove in mattinata avevo visto la seconda torre crollare e ora vedevo
solo una gran nuvola di fumo sinistramente illuminata dalle luci artificiali
utilizzate dalle forze dell’ordine e dai volontari impegnati nei soccorsi.

Improvvisamente era
come se tutti i piccoli problemi quotidiani non avessero più senso, se tutte le
cose fino ad allora considerate come ostacoli nella mia piccola esistenza
fossero svanite, paragonate a quell’ enorme, tragico incubo. Quel giorno era
stato lungo, troppo lungo. Per un attimo mi sembrò che nulla avesse più senso,
non riuscivo a farmene una ragione, semmai ce ne fosse stata una. Sapevo che sulla
pelle dei miei ricordi, questo tatuaggio mi avrebbe accompagnato per tutta la
vita.

Tornai a casa, mi sdraiai sul letto e
cercai di dormire e di non pensare a nulla ma ogni volta che chiudevo gli occhi
vedevo quelle scene indelebili di morte e paura, fino a quando a crollare
furono anche le mie forze.

Quell’undici
settembre aveva cambiato la mia esistenza. Nulla sarebbe stato
più come prima: la scala dei miei valori era radicalmente
mutata. Le cose che prima mi sembravano importanti, avevano assunto
connotati diversi. Ero vivo ed
erano vive le persone che amavo: questa era
l’unica cosa importante.

Dicembre ormai era
alle porte e le mille luci di New York stavano per vestire a festa le strade e
i negozi. Lasciai le valigie
nel soggiorno di casa vicino all’ingresso e salii le scale che portavano
al tetto. Guardavo questa città sconfinata, i suoi ponti, i fiumi, lo scorrere
del traffico, questo suo
eterno movimento. Il profilo era cambiato,
Manhattan era un’isola ferita e c’era un vuoto
assordante in quel punto preciso.

Avevamo molte cose in comune, ma dentro
di noi c’era già la voglia di ricominciare; quel vuoto un giorno sarebbe
stato riempito e per farlo l’imperativo era abbracciare l’amore
in tutte le sue forme. A un certo punto, con le braccia
aperte e gli occhi chiusi, iniziai a
fare dei giri vorticosi su me stesso, come quando ero bambino, quattro,
cinque, sei volte;
poi d’un tratto mi fermai e aprii gli occhi. Avevo dimenticato quella sensazione di stordimento e ad un
tratto ero felice. Sentivo
l’aria fluire dentro i miei polmoni, potevo respirare tutta la bellezza
del mondo e la vita in tutte le
sue forme. Questa era l’unica cosa che contava, tutto all’improvviso aveva di
nuovo un senso. Guardai la scia di un aereo tagliare il cielo, il mio taxi stava
per arrivare. Prima di scendere dal tetto mi voltai per l’ultima volta verso
quel vuoto e sorrisi: New York, come una moderna fenice, sarebbe risorta dalle
sue ceneri.


Dario
Camilotto

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